di Marinunzia Fanelli
Un autore, un libro e un luogo da rigenerare.
Un’associazione, “Amabili confini”, fondata da Francesco Mongiello, che pone al centro la cultura, quella vera, fatta di curiosità, confronto ed esperienza e il cui obiettivo è sincero, senza malizia alcuna: condividere, attraverso la partecipazione attiva dei cittadini; includere, attraverso il coinvolgimento di ogni singolo; contaminare, incollarsi sulla pelle di coloro che hanno il desiderio, a loro volta, di un rinnovamento sociale.
Un insieme di racconti, scritti da giovani e meno giovani, provenienti dalle periferie della città. Storie, presentate dalla psicologa Maria Rosaria Salvatore, che cercano ripari, passioni, “orizzonti” e che, perfino attraverso le parole di un carcerato, dimostrano che, l’importante nella vita è avere sempre qualcosa da raccontare.
Due vecchi amici, una psicologa in erba, Marinunzia Fanelli, e uno scrittore, Roberto Moliterni, accomunati dalla passione per la lettura e dalle incursioni baricchesche.
In sottofondo la voce di Genoveffa Capuzzi che legge alcuni passi del libro, le cui parole riecheggiano per tutta la sala.
Tutt’intorno, un insieme di persone mosse dall’interesse e dalla curiosità di riscoprirsi nelle parole degli altri, perché, se ci pensiamo, i libri fanno un po’ questo: in qualche modo, ci rimandano parti di noi, ci aiutano a scoprirci e ad essere più consapevoli di noi stessi.
Come ha sottolineato Paolo Giordano nel corso dell’intervista tenutasi lo scorso 30 maggio presso l’aula magna don Tonino Bello della Parrocchia di Maria SS. Addolorata, ci sono dei libri che possono rivoluzionare le nostre vite.
Bern, il protagonista dell’ultimo capolavoro di Giordano “Divorare il cielo”, si è lasciato guidare dalle righe di Max Stirner, in “L’unico e la sua proprietà”. Un libro che lo aiuta ad aprire gli occhi, a “spalancarli”, come sottolinea lui stesso, a costruire dentro di sé la sua piccola rivoluzione interna.
Il suo desiderio è chiaro, è “l’assalto al cielo”, tanto che afferma con forza “noi dobbiamo divorarlo, il cielo!”.
Nel corso dell’intervista ci siamo molto soffermati su tale verbo, su questo “divorare”, che nella lingua italiana assume il significato di mangiare con voracità, con rapidità. Da questo titolo si spalanca la meraviglia di tale libro, che non parla solo di una storia di amore, ma della vita.
Attraverso l’esistenzialismo cupo che imprigiona i personaggi di questa storia, si snodano le essenze dei protagonisti, dapprima adolescenti, in seguito giovani adulti.
Se ci pensiamo, il termine adolescente deriva dal latino “alere”, che significa “nutrire”.
E chi nutre, dunque, gli adolescenti? I genitori, gli amici, la quotidianità fatta di piccole cose.
Molto, dunque, accende in noi questo divorare.
I personaggi del libro sembrano nutrirsi di tutto ciò che la vita può offrire: esperienze, libri, persone… una fame di conoscenza, una bramosia per ciò che non si è mai avuto. Una fame di tutto… che, forse, nasconde un profondo bisogno d’amore.
Le ferite dei personaggi, diventano un po’ le nostre.
L’assenza di un padre, di una regola che guidi e che insegni il desiderio, entro dei confini, che sia un contenimento per le forze rivoluzionarie che si attivano in tutti gli adolescenti; il rifiuto di una madre, le cui mani non sono pronte a salvare il figlio dall’insensatezza dell’essere al mondo; una guida autoritaria, che a modo suo, cerca di fare del proprio meglio per educare i ragazzi; amicizie e amore, che si costruiscono tra gli ulivi e la terra rossa della Puglia estiva.
Questa intervista ha permesso di costruire un’accesa discussione, che non ha generato semplicemente un momento, quanto un movimento.
Ognuno di noi è andato via, con la riflessione incollata sulla pelle, con una nuova esperienza di vita, con una nuova consapevolezza.
Francesco, ha decisamente raggiunto il suo obiettivo e gliene sono grata.
È stato bello poter assistere alla costruzione di un desiderio di conoscere, vivo, in tutti noi.
I miei studi classici contaminano molto il mio pensiero. Mi piace pensare che con Amabili confini si accendano i desideri. L’etimologia della parola è una delle mie preferite: è composta dalla particella privativa “de” e il termine “sidus-sideris”, che significa “stella”. Dunque, desiderio significherebbe “condizioni in cui sono assenti le stelle”. Il desiderio, come ci ricorda Recalcati, si genera da un vuoto, da un’assenza che tutti gli esseri umani vorrebbero riempire.
Per estensione, oggi, il verbo desiderare ha assunto, a partire dalla percezione della mancanza, il significato di moto e sentimento di ricerca appassionata.
Il mio desiderio? Che questo meraviglioso impegno di Amabili confini sia sostenuto e portato avanti. Che la mia città continui a crescere.
Matera, piccola chora informe, che, a poco a poco, prende vita.
Mather mea, piccolo grande esempio di resilienza: annientata, derisa, denigrata… eppure, rifiorita.